Il re pallido

Immaginate di entrare in un posto, diciamo un’immensa copisteria di un grande magazzino. È mattina presto e siete il primo cliente. Vi fermate sotto le luci accese fosforescenti e lasciate che le porte si chiudano scivolando alle vostre spalle, osservate i commessi nella loro divisa con la camicia blu, le bocche aperte, che girano per il negozio ancora assonnati. Prendeteli come un’immagine unificata, con una vaga superficie impenetrabile di noia e insoddisfazione di cui siete contenti di non far parte, e partite per il vostro obiettivo, fare delle fotocopie o quello che sia. Ecco il momento in cui Wallace preme il pulsante di Pausa, quel breve istante in cui voi accendete la disattenzione, e vi concentrate in voi stessi. Lui porta indietro quel momento, e preme Play di nuovo. Adesso è diverso. Vi trovate in una stanza con un gruppo di esseri umani. Ognuno di loro è come voi, è stato ferito ed è guarito in modo strano. Ognuno di loro, anche il più superficiale, ha un romanzo dentro sé. Ognuno di loro è amato da Dio, o merita di esserlo. Hanno tutti qualcosa a che fare con te: quando lasci che la membrana della consapevolezza diventi porosa, l’osmosi è possibile, sapete che è vero, abbiamo tutti a che fare l’uno con l’altro, siamo parte di una narrazione – ma quale? Wallace vuole assolutamente scoprirlo. E capiva che il mondo moderno ci bombardava con scenari come quello della copisteria, in cui è molto facile scordarsi di questa domanda. Ci sentiamo “soli nella folla”, scrive in uno dei suoi racconti, ma non “ci fermiamo a pensare a cosa abbia dato vita a quella folla,” con il risultato che “siamo, sempre, volti in mezzo a una folla”. DWF, Il Re pallido
“A proposito, lo so che questa parte è noiosa e probabilmente ti annoia, ma si fa assai più interessante quando arrivo alla parte in cui mi uccido e scopro quello che succede subito dopo che una persona muore”. DWF,Caro vecchio neon

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