Marius e Cosette erano l’uno per l’altra nel buio. Non si parlavano, non si cercavano, non si sfioravano; si vedevano; e come gli astri separati da milioni di leghe, vivevano di guardarsi. (I miserabili, Victor Hugo)
Devo fare ammenda per aver trascurato gli ultimi esiti, da Spider in poi, del cinema di Cronenberg.
A torto o ragione, l’ultima parte della carriera di C. ha segnato una svolta anche solo apparente al cinema della Nuova Carne che aveva prodotto opere seminali sino a Crash e Existenz per poi prendere traiettorie diverse prima più classiche, affrontando il genere, (il binomio A history of violence/La promessa dell’assassino) e poi più indipendenti ( A dangerous method/ Cosmopolis).
Maps to the stars, questo il suo primo pregio, permette anche una lettura a posteriori di questi ultimi film, mescolando la violenza dei primi alla psicoanalisi junghiana e all’ironia dissacrante e amara dei secondi.
E deve fare ammenda la protagonista del film di C. ma in fondo perché?
Il mondo in cui vive - o sogna di vivere, visto che nell’incipit dorme – è un mondo deflagrato, dove sono rimaste le rovine di un incendio e la cenere copre ogni emozione; dove la famiglia nucleare è rimossa, sostituita, scardinata dalla minaccia dell’incesto, ombra sempre al margine di ogni inquadratura.
Dove niente è mai abbastanza. Come la droga per il tossicomane, la fama per il divo, la moneta per l’inflazione. Ce ne vuole sempre di più per ottenere però la stessa soddisfazione, lo stesso piacere, lo stesso ripetitivo bene.
Si sognano bambini morti e a morire sono i bambini, non-nati in un mondo di repliche, di tentati remake di vite/film passati, di coazione a ripetere la propria vita e la vita dei propri genitori, alla ricerca disperata di un’identità e di un genere mai ben differenziato (si veda l’incursione lesbica e l’effeminatezza/indeterminatezza di tutti i principali protagonisti).
Un mondo senza genere e senza madri, dove anche i fantasmi non fanno che ripetere battute di altri e ripeter-si in nuove inquadrature in cui anche lo spettatore non riesce a identificarsi più con nessun punto di vista.
E quando ha un POV, viene massacrato da una statuetta…
C. ritorna allora su corpi mutanti - come la cicatrice della protagonista che sembra animarsi ad ogni inquadratura – e disfatti (quello incontinente di Havana, una Julianne Moore in overacting appunto), corpi fuori controllo o che si controllano solo con le droghe (L’inferno è un luogo senza psicofarmaci) o attraverso gli orifizi come nei romanzi -tanto cari al regista- di Burroughs.
Corpi di fantasma reali e irreali che replicano le scene di un film già girato, corpi già bruciati dal mondo della celluloide.
E’ allora la parola che libera e uccide come un virus, refrain ripetuto che inceppa la ripetizione, mantra che disinnesca la messa in scena, mostrandone la vera sostanza.
E come tutti i virus, il passato preregistra il futuro. Cosi l’immagine del passato modella il nostro futuro imponendo la ripetizione mentre il passato si accumula e tutte le azioni sono preregistrate e calcolate e non c’è più vita nel presente succhiato fino all’ultima goccia da un cadavere che cammina bisbigliando attraverso cortili vuoti sotto cieli da film ( W.Burroughs, il Biglietto che esplose).
E’ un futuro letteralmente senza speranza e quindi senza stelle, se l’unica che si intravede nel film è finita a terra, sulla Walk of fame, monumento funebre e funereo, di una stella del cinema passata, bruciata, andata.
E le uniche stelle possono essere quelle dei titoli di testa , quelle che potrebbe aver visto un bambino su di una soffitta.
E non ci può essere controcampo possibile nell’ultima inquadratura – che ci ha ricordato un altro film di fantasmi, Restless di Gus Van Sant.
Non c’è controcampo – perché l’amore, la libertà – evocate meravigliosamente dai versi di Eluard, versi di una poesia d’amore assunta poi a canto simbolico della libertà – perché l’amore, appunto, è il controcampo negato.
E allora devo fare ammenda per un terzo motivo, terzo come il cowboy da scoprire in Mullholland Drive, altro film che torna alla mente guardando Maps to the Stars.
Perché la cassiera del multisala, constatata la sala completamente deserta, mi allungava il biglietto (esploso?), sentenziando sorniosa “ E’ un filmone…”-
Ecco forse inconsciamente, ci aveva già visto giusto…
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